Ilicic oltre Andy Warhol

Roberto Beccantini23 gennaio 2021

Nella mia griglia l’Atalanta era terza. Dietro Juventus e Inter, davanti a Milan, Napoli, Roma e Lazio. Il 3-0 alla capolista è un avviso di «garanzia» per gli avversari. Già sento il loggione: col Genoa e a Udine, però, aveva pareggiato. Certo. Di marziano ne esiste uno, va per i 36, e non sempre basta.

Il Milan di Pioli è campione d’inverno «nonostante»: lo deve alla sciatta Inter di Udine (0-0), con un Conte che non ricordo così furibondo dalla notte di Juventus-Genoa. Tornando alla Dea, è la squadra più europea che abbiamo: come gioco, come fisico, come mentalità. Gasp, poi, è uno dei rari tecnici che «fanno» punti; anche senza il Papu, ça va sans dire. C’è stata poca partita, a San Siro. Ibra o non Ibra (e, agli sgoccioli, Marione o non Marione). Il Milan era un po’ incerottato, ok, ma questi sono prezzi che pagano tutti, e allora tanto vale farsene una ragione.

Romero di testa, Ilicic su rigore, Zapata di sinistro. Josip Ilicic ha 32 anni, è uno sloveno di scuola brasiliana, lunatico e genialoide, dal bandolero stanco del passato all’artista che ormai esula dal quarto d’ora di popolarità che coniò Andy Warhol: molto, molto di più. Sconvolto e travolto dalla onda lunga del virus, era finito nel silenzio che spesso spacciamo per paura, per mistero; e talvolta, i più scabrosi, per crisi. Figuriamoci. Ilicic ha un sinistro da torero e una sterzata da slalomista. Dinoccolato, ombroso: ma quando decide, decisivo.

Pressing di gruppo e non randagio, testa alta (ad altezza Duomo, per intenderci), con il 5-0 del Liverpool a far da confine: al diavolo (appunto) le leggerezze di gestione, le turbolenze di volo. E il primo cambio si chiama Muriel, uno da 11 gol. L’Atalanta è moderna perché se ne frega delle etichette, difende a uomo, ma a uomo ringhiando in avanti, non molla mai, ti fissa negli occhi e se di fronte trova muscoli teneri come Meité, li sbrana.

Ebbene sì, «clamoroso ad Anfield!»

Roberto Beccantini22 gennaio 2021

Proprio nei giorni in cui celebriamo i 70 anni del Totocalcio, di quella schedina che ci imponeva miracoli (di competenza, di fortuna, di fiuto) per realizzarne altri, innalzando un numero, il «tredici», a simbolo dei segni (1, X, 2) e dei sogni, dalla pancia deserta di Anfield arriva un risultato che avrebbe di sicuro impennato il montepremi: Liverpool zero Burnley uno. Il Liverpool, campione in carica. Il Burnley, inquilino della bassa classifica.

Il gentile Alex Drastico mi ha preceduto con un «Clamoroso ad Anfield» che si riallaccia sempre a quella fetta, preziosa e feconda, del Novecento, a una trasmissione radiofonica che diventò una specie di crocevia esistenziale, «Tutto il calcio minuto per minuto». Voci che la morte ha allontanato, ma non spento.

Non perdeva in casa da 68 partite, il Liverpool. Era falcidiato da infortuni e contagi. Stop. In alto i calici per i gloriosi pirati che ne hanno violato il Tempio. E’ proprio il modo che mi ha spinto a buttar giù, quasi a braccio, queste poche righe. Un catenaccione che mi ha riportato alle partitelle dell’oratorio, alla lettura febbrile dei giornali freschi di inchiostro, alle ombre che la prime dirette tv portavano in salotto. Alla volontà, da parte del più debole, di salire al livello del più forte; o di farlo scendere al proprio.

I Reds – che, altro allarme, non segnano da quattro gare – attaccavano, attaccavano, attaccavano. E loro, quelli del Burnley, orgogliosamente sempre e tutti lì, a difesa di un Alamo che i «messicani» di Klopp non riusciranno mai a espugnare. Poi, in una delle rare sortite, ecco l’uscita di Alisson su Ashley Barnes, il rigore e la «meta» impeccabile dello stesso Barnes. Mancava una manciata di minuti all’epilogo. Subito, the Clarets sono tornati a rintanarsi dentro casa e hanno nascosto le chiavi. Per non far entrare nessuno che non fosse la la storia. Complimenti!

Con merito, al di là del rigore

Roberto Beccantini20 gennaio 2021

La Juventus doveva ricominciare; il Napoli, continuare. Ha vinto, con merito, la Juventus perché, a volte, per andare avanti bisogna tornare indietro: al tutti per tutti, all’occhio di tigre, a quelle armi, mentali e fisiche, che, domenica sera con l’Inter, un po’ aveva nascosto e un po’ le avevano sottratto. E’ la nona Supercoppa, il primo trofeo di Andrea Pirlo.

Gli episodi, certo. Il miracolo di Szczesny su Lozano nel primo tempo, il rigore sbagliato da Insigne, l’altro miracolo del polacco agli sgoccioli. Per carità. Eppure Juventus due Napoli zero. Cristiano in mischia, quando la partita sembrava Laocoonte ingessato dai serpenti; Morata in contropiede, quando puoi prendere alla gola chi ha l’acqua alla gola.

Che finale è stata? Lenta, grigia, accesa dai falò degli attimi, con il torello di Madama a segnare la rotta, con il Napoli timido, forse troppo, aggrappato all’attesa. Sono mancati i tenori: Insigne (ben oltre il penalty), Zielinski, Lozano, Chiesa, Kulusevski, a tratti persino il marziano. Non mi aspettavo il ritorno di Cuadrado. E’ stato cruciale. Lì, sulla fascia destra, in combutta con McKennie, a frenare Insigne o chi per lui. Solo Szczesny gli ha tolto l’onore del podio più alto.

Ci sono stati pochi tiri, a conferma del predominio dei pacchetti difensivi (Bonucci-Chiellini da una parte, Manolas-Koulibaly dall’altra). A centrocampo, Pirlo ha proposto un trio – McKennie, Arthur, Bentancur – che ha sequestrato il cuore del ring. Arthur, già: il brasiliano imbuca di qua e imbuca di là, avrebbe bisogno di «cartoline» che gli dettano il lancio, merce rara. Bernardeschi al posto di Chiesa sembrava il classico cerotto ad alto rischio. Invece no: e non solo per il gol sfiorato in avvio di ripresa.

Ha chiuso, Gattuso, con Mertens, Lozano, Insigne e Llorente.
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